C’è chi a tempo perso si diletta con i videogiochi e chi ragiona di filosofia e poi ci sono io che faccio entrambe le cose contemporaneamente (padronissimi di non crederci, ma non c’è niente che svuoti la mente come la playstation, lasciandola libera per la metafisica).
Così mentre ieri dopo pranzo salvavo il mondo da una massiccia invasione aliena, andavo riflettendo sul fine vita e le sue problematiche etiche e ho cominciato ad analizzare uno degli assunti di base della polemica in oggetto, assunto che potremmo esprimere così: “il corpo è mio e lo gestisco io”.
Per chi crede in un Dio Creatore è ovvio che questa è un’idea inaccettabile, infatti se abbiamo ricevuto il nostro corpo in dono ne siamo responsabili di fronte a Colui che ce lo ha donato, ma per gli altri? È possibile fondare filosoficamente un rifiuto di questo assunto prescindendo dalla fede in un Creatore? La domanda non è oziosa infatti non si può imporre per legge una fede, ma se invece si riesce ad argomentare un affermazione filosoficamente e quindi laicamente, allora le cose cambiano e quel pensiero diventa ipso facto “politico”.
Così mi sono chiesto: è proprio vero che il corpo è mio? Mi è venuto in mente il mio amico C.S. Lewis che nelle “Lettere di Berlicche” ragionava sottilmente sulle differenti sfumature del pronome “mio” da “il mio paio di scarpe” a “il mio amico”, fino al “mio Dio”. Ne ho concluso: no, il mio corpo non è decisamente mio, nel senso che non lo possiedo del tutto, o quantomeno non è nella mia totale disponibilità.
Propriamente parlando infatti io non ho un corpo, io sono un corpo. La mia identità è cioè così strettamente correlata con il corpo che difficilmente può esserne distinta. La questione quindi sarebbe meglio posta se mi chiedessi “io sono mio? Sono nella mia piena disponibilità?”
Formulando così la domanda, la risposta mi appare più chiara. Infatti, sebbene ci siano alcuni che sono convinti di questa radicale e assoluta disponibilità, la maggior parte di noi invece ritiene che l’uomo è inserito in una rete di relazioni che pongono su di lui una responsabilità nei confronti degli altri, per cui egli non è nella totale disponibilità di se stesso perché ha dei doveri verso le persone a cui è legato. Così, ad esempio, un padre ha dei doveri verso i suoi figli o un professore verso i suoi studenti. Se è vero che l’uomo è una rete di relazioni, se è vero, come insegnano Buber e Levinàs, che non si può comprendere l’io senza il tu, allora è anche vero che esiste un limite alla disponibilità di sé.
Scrive il filosofo inglese John A.T. Robinson: “L’età dell’individualismo è terminata. Insieme ad essa è crollato quell’ideale che intendeva la salvezza dell’uomo come indipendenza da ogni responsabilità e da ogni soggezione” (Robinson è uno dei teorici della “morte di Dio”, non ne raccomando ovviamente la lettura, ma su questo punto ha ragione)
Torniamo al corpo. Che cos’è dunque il corpo? Potremmo definire il corpo come l’essere-in-relazione dell’io, è infatti attraverso di esso che noi ci relazioniamo gli uni gli altri. Senza un corpo saremmo monadi chiuse ed isolate e non potremmo comunicare. Provate a comunicare qualcosa senza usare i sensi, ci riuscite? D’altra parte proprio il fatto di essere un corpo è ciò che ci “costringe” alla comunicazione, ne è una prova il fatto che la deprivazione sensoriale è una delle più raffinate forme di tortura.
Poiché è mediante il corpo che io entro in relazione con l’altro, allora io del mio corpo sono responsabile perché sono responsabile della comunicazione. Ferire o distruggere il proprio corpo significa ferire o distruggere la comunicazione. Pensiamo ad esempio a ciò che accade nel matrimonio: la sessualità dell’uno è donata all’altro, così che il corpo del marito appartiene anche alla moglie e viceversa. Esso è per così dire la proprietà comune che rende possibile la relazione tra i due (è il senso profondo dell’assioma biblico “i due saranno una sola carne”).
In misura minore questo vale per ogni relazione. Il mio corpo quindi è in un certo senso un patrimonio sociale affidato alla mia responsabilità, è patrimonio sociale perché rende possibile a tutti di esercitare il loro diritto di comunicare con me, è affidato alla mia responsabilità perché evidentemente sono io che devo averne cura (non potrebbe farlo un altro al mio posto). Perfino il diritto italiano riconosce questo principio, ad esempio con il divieto dell’automutilazione, ma anche punendo chi non si prende cura di sé (ad esempio mettendo le cinture di sicurezza in auto).
Ecco quindi che anche da un punto di vista filosofico non è infondato un certo diritto sociale sul mio corpo. Naturalmente in relazione alla questione del fine vita si potrebbe obiettare che il malato terminale è tagliato fuori da ogni comunicazione e che quello è un corpo che non comunica, ma chiunque abbia esperienza di malati terminali sa che questo non è del tutto vero, a chi sa essere sufficientemente sensibile ed attento anche i malati in coma profondo sanno comunicare qualcosa.
Ed ho anche salvato il mondo dagli alieni!
Stampo e porto dietro… 😀
Non salvo il mondo dagli alieni… troppo maschile per me, ma tetris, quello classico! 😉
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Ottimo, don Fabio, continua con la playstation! 😀
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Reblogged this on Filia Ecclesiae and commented:
Ottimo articolo! Il corpo è mio e lo gestisco io? Col cavolo!
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Ah, se si riuscisse davvero a gestirlo, il proprio corpo…
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Bello, bello e vero! Mi fa venire in mente come non siamo “arbitri” ma “ministri” del nostro corpo e della nostra fecondità (FC III).
E la responsabilità….bellissimo! La responsabilità scaturisce dalla relazione io-tu e la porta un passo più in là, perchè l’atto del ‘rispondere’ di qualcuno comporta sempre un terzo a cui rispondere: e qui si apre il fondamento del vivere sociale, dell’essere ognuno soggetto-in relazione-in comunità.
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“anche i malati in coma profondo sanno comunicare qualcosa”: verissimo! E ricevono anche tanto dall’esterno. Conosco un ragazzo al quale, durante il coma, veniva toccata dolcemente la mano dalla mamma: quando è finalmente uscito dal coma (e i dottori sono rimasti meravigliati perché s’è svegliato), ha detto di ricordare benissimo quella mano!
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avendo passato io stesso tre settimane in coma non posso che confermare
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Lo avevo letto ma in questo momento non ci ho pensato. Già da quando lho letto pensavo di lasciarti queste domande: “Ma quanto sei amato da Dio? E come teneva al tuo sacerdozio, da tirarti fuori dal coma?”
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Verissimo, anche se secondo me la questione dei malati terminali meriterebbe una trattazione a parte, “il corpo è mio” sarà anche vero, ma non posso gestirlo come mi pare e piace. Questo post lo farò leggere quando mi capiterà di parlare con qualche persona “pro-aborto”, sperando che serva a spiegare meglio la questione (magari tagliando l’ultima parte che va fuori tema)
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Un consiglio di lettura:
http://www.tempi.it/la-bimba-cerebrolesa-che-ha-dato-vita-allospedale-di-livorno
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Grazie Karin! Smack! 😀
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Prego! 🙂
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