Come è interessante il linguaggio!
Le parole sono scivolose, non sono ferme e stabili nel loro significato nel tempo e a seconda di chi le usa acquistano significati diversi, a volte perfino contraddittori, a volte poi la gente non fa la fatica di andare oltre l’apparenza e cercare di capire in che senso l’altro le usi, se poi pensiamo che ormai la cortesia di un credito di fiducia anticipata non si dà più a nessuno, specialmente in rete, si capisce facilmente come soprattutto su FB si finisce a volte con l’insultarsi come pescivendole (con tutto il rispetto per i venditori di pesce, è un modo di dire che solo chi è stato al mercato del pesce di Genova può capire) perfino tra persone che in realtà la pensano allo stesso modo.
Ci pensavo ieri sera, prima di addormentarmi, riconsiderando un flame furioso innescato da un mio post su FB in cui annunciavo il cambio di ministero che dal 1 Settembre mi vedrà protagonista.
È un cambio radicale, da parroco a cappellano in ospedale: sono due modi di vivere lo stesso ministero, quello sacerdotale, totalmente diversi. Il parroco è in un certo modo paragonabile a un contadino, il suo compito è seminare, custodire il seme, difendere il territorio, coltivare lentamente e con pazienza ciò che ha seminato, spiare giorno per giorno con trepidazione la crescita lenta dei Cristiani che gli sono affidati. Il cappellano di un ospedale invece sa di avere a disposizione pochissimo tempo per raggiungere il cuore di una persona, una settimana, al massimo due, quindi sa che si gioca tutto ogni volta in uno-due colloqui, sa che, se sbaglia, la maggior parte delle volte non ci sarà una seconda occasione. Il suo compito quindi è paragonabile piuttosto a quello di un cacciatore: sempre vigile e attento, pronto a “sparare” su tutto ciò che si muove.
Esprimevo tutto questo dicendo che sono consapevole del fatto che dovrò ricostruirmi una nuova “professionalità”.
Dopo trent’anni di vita in parrocchia il lavoro di parroco so farlo bene, ho imparato a dare il giusto peso alle cose, so gestire e affrontare situazioni che all’inizio del ministero mi mandavano nel panico, eccetera, mentre invece del lavoro di cappellano non so nulla. Ad esempio, mi chiedo, come parlare a una persona che sta per morire? Una delle persone che mi ha risposto su FB mi portava proprio il caso doloroso di un cappellano che ha dato una risposta totalmente sbagliata nella sostanza (pur esatta nella dottrina) e questa è proprio la mia paura.
Le parole che hanno innescato il flame sono tutte relative all’area lavorativa: lavoro, professionalità, competenza…
Da una parte voglio subito sottolineare il positivo: le persone che si sono sentite offese dal mio linguaggio lo sono state perché vedono quella sacerdotale come una missione e quindi non gradiscono che si applichi al sacerdozio il linguaggio del mondo del lavoro. Lo capisco e lo rispetto, del resto a volte anche io mi sono scagliato contro i “professionisti” del sacro, sarebbe gravissimo ad esempio l’atteggiamento di un prete che interpretasse il suo ministero come uno che “timbra il cartellino” aspettando la fine della giornata lavorativa, oppure di chi svolgesse il ministero sacerdotale unicamente per denaro.
Chi fa il prete lo fa per amore, non c’è dubbio, nessuno sano di mente lo farebbe per un altra ragione (e non è detto che chi ama sia sano di mente).
D’altra parte però rivendico assolutamente per il ministero sacerdotale alcune caratteristiche del mondo del lavoro che sono sante in sé, come ben ci ha insegnato S. Escrivà de Balaguer.
La prima di queste è proprio la categoria del lavoro.
Fare il prete è un lavoro, nel senso etimologico della parola: un labor, cioè una fatica. Guai al prete che non fatica! Nello stesso senso ad esempio si parla del lavoro di una mamma e in quel caso tutti capiscono cosa si intende. Come ogni lavoro richiede costanza, applicazione, sacrificio, dono di sé. Significa che le cose le fai anche se non ne hai voglia, se non ti danno nessuna gratificazione immediata, che la tua opera non è affidata allo spontaneismo ondivago o alla instabilità dei sentimenti.
Insomma non sei solo un volontario, sei un “professionista”. Non fai le cose solo perché ne hai voglia, ma perché hai professato quel ministero.
La parola professionista viene da professione. Non a caso in Italiano la parola professione ha due significati, indica sia il mestiere (altra parola bellissima: viene dal Latino ministerium = servizio) che la totale dedizione di sé (come ad esempio quando parliamo di professione religiosa). Così la dicotomia dilettante/professionista distingue colui che fa una cosa a tempo perso da uno che la fa dedicandoci tutto se stesso.
È vero che bisogna essere anche dilettanti per fare il prete, cioè bisogna fare le cose con diletto, ovvero con passione, però al tempo stesso bisogna essere professionisti, cioè farle con una dedizione totale, senza avere alcun altro interesse.
La parola “professionalità” è poi quella che ha scatenato le discussioni più accese. Che cos’è la professionalità? È appunto la qualità che distingue il professionista da quello che si improvvisa in un lavoro che non conosce, un buon sinonimo potrebbe essere “competenza”.
Ora, se è certo che non occorre alcuna competenza specifica per fare il prete, ma è sufficiente un po’ di amor di Dio, è vero anche che la vita del prete si declina in molte forme diverse, esistono molti ministeri diversi a cui il prete è chiamato, e ciascuno ha una sua competenza specifica: diversa ad esempio è la competenza richiesta ad un insegnante da quella richiesta ad un giornalista, e un prete insegnante può essere fantastico ad esempio nel dialogare con i suoi studenti, ma se non conosce la materia che insegna resta un cattivo insegnante, così come un prete giornalista se non verifica le notizie che dà sarà magari un buon evangelizzatore, ma un cattivo giornalista (e alla fine della fiera se non è stato un buon insegnante o un buon giornalista non è stato nemmeno un buon evangelizzatore).
Il ministero di parroco, quello che conosco meglio, ha delle sue competenze specifiche molto precise, il suo primo dvere è costruire e governare la comunità cristiana: per fare questo deve essere un uomo di preghiera e conoscere bene la dottrina (vabbé questo lo si richiederebbe ad ogni prete), deve avere buone capacità relazionali, deve conoscere un minimo di diritto, saper amministrare cose e persone eccetera
Io dedico, come sanno tutti i miei amici, tantissimo tempo alla direzione spirituale. Dio sa che le cose più difficili che mi è capitato di fare in questo ministero sono state risanare i danni provocati da confratelli sacerdoti, magari pieni di zelo e in totale buona fede, ma semplicemente incompetenti, perché quasi sempre un cattivo consiglio è peggio di nessun consiglio.
Immaginate ad esempio il danno che può provocare alla vita di una persona un prete che consiglia un matrimonio senza che ci siano i fondamenti necessari (o peggio una consacrazione)! Certo, sposarsi è una cosa buona e ancor di più lo è consacrarsi, ma non è detto che sia una cosa buona per quella persona in quel momento, e spesso sei tu parroco a prenderti la responsabilità di indirizzare una persona in un senso o nell’altro con i tuoi consigli. Per fare questo non basta la vita spirituale (che pure è necessaria) e nemmeno la buona fede. Ci vuole la competenza che nasce solo dall’esperienza.
Io questa professionalità ce l’ho. Non lo dico come un vanto, ma come un dato di fatto, perché bisognerebbe essere davvero stupidi per non aver imparato qualcosa dai propri errori in trent’anni di ministero. D’altra parte intuisco che la professionalità richiesta a un cappellano in ospedale è molto diversa. Ad esempio io so poco di bioetica (quel poco che ho studiato all’università), ma immagino che i consigli chiesti a un cappellano riguardino spesso questo argomento, ad esempio: trattenere in vita mio papà è accanimento terapeutico o eutanasia? Ci vogliono delle competenze specifiche per rispondere ad una domanda così, non basta aver studiato quattro cose sui manuali di scuola, ci vuole quello che io ancora non ho: appunto l’esperienza.
Da qui dunque la mia preoccupazione che candidamente affidavo a un post su FB suscitando tante discussioni.
In conclusione quindi, cari amici, abbiamo sicuramente bisogno di preti santi, ma abbiamo bisogno anche di preti competenti, che facciano il loro santo lavoro con grande professionalità. Quindi pregate per me, che sia santo, ma anche che sia competente nel mio nuovo ministero.
Caro don Fabio, considerati già nelle mie preghiere. 🙂
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Non fa una piega don!
Anche io mi ero chiesta perché l’uso fatto su quella condivisione della parola professionalità avesse suscitato tanto furore a tratti scandalo. Grazie per aver dato seguito con una spiegazione più corposa e professionale (^_-) del tuo pensiero che tra l’altro a mio parere è non sono condivisibilissimo ma anche auspicabile. E non solo in campo sacerdotale, visto che tutti siamo chiamati a fare qualcosa di significativo nella e della nostra vita (vocazione= viene dal latino chiamare). Buon lavoro allora e preghiere di una santa nuova professionalità!
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Carissimo Don Fabio, preghiere assicurate!
Mi piace un sacco questa tua scelta, coraggiosa anche, ma sono sicura che sia quella giusta. Anche se te lo dico con tranquillità, avrei sperato prima o poi di averti come parroco… senza togliere nulla al mio.
Non uso fb quindi non ho letto il testo incriminato, ma in base a questo post mi viene da dire che uno dei problemi dei fedeli è proprio quello di considerare un lavoro il fare il prete: non come dici giustamente tu, ma in un senso più dispregiativo. Aggiungo che vorremmo che non timbriate cartellini, anzi orario pieno, sempre a nostra disposizione.
Smack!
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La tua forza il tuo amore per Gesù ti faranno superare tutto
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Lo Spirito Santo le metterà in bocca le parole giuste. Si fidi!!!! Le assicuro le mie preghiere.
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Buona strada!!!
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Caro Don Fabio, in questo annuncio tuo che leggo qui (anch’io come altri schivo FB), datato solo un giorno prima della Festa di oggi, l’Assunzione di Maria Vergine al cielo, penso che non si possa farti augurio migliore di porti alla Sua sequela e sotto la sua Santa protezione.
Aveva forse Maria una qualche “preparazione professionale” per divenire Lei, Madre di Dio?
Aveva una qualche esperienza (tutt’altro, neppure Uomo conosceva…).
Sono certo ben altre le cose che Dio aveva visto e preparato in Lei. Quindi, seppure una santa preparazione, dottrinale, spirituale e “professionale”, per chi ha la grave responsabilità pastorale della cura delle anime è necessaria, la domanda fondamentale che certo ti sarai posto e hai posto allo Spirito Santo e a cui evidentemente hai trovato risposta è: “Che vuoi da me Signore? E’ questa Signore la Tua Volontà?
Sia fatta allora la Tua Volontà”
Tutto il resto verrà da Dio, come novità che poggia su ciò che ci ha donato cammin facendo (comprese le nostre conoscenze).
«Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».
Ti aspetta un “lavoro” duro e impegnativo, che metterà te stesso per primo di fronte alle domande e anche ai rifiuti di tanti, nei momenti che mettono a dura prova l’Uomo: la Sofferenza e la Morte.
Che se un Parroco, può essere strumento per raddrizzare e formare tante vite, un Prete in ospedale, può essere l’ultimo baluardo o l’ultimo pescatore ( più che cacciatore 😉 ) per la salvezza di un’anima!
Tutto ciò sarà fatto per Amore e con Amore, sapendo che “servi inutili” siamo e che nel sofferente abbiamo Cristo difronte (in fondo un grande privilegio…)
Il Signore ti benedica, Maria ti protegga.
(Sperando di continuare a leggerti qui in questa nuova “avventura”)
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Anche Maria però, come ci ha spiegato magnificamente S. Giovanni Paolo secondo, ha progredito nella fede. Un conto è Maria nell’Annunciazione, un conto sotto la Croce, un conto a Pentecoste, un conto infine nel momento dell’Assunzione.
In una parola nessuno nasce “imparato”:
Ciò che spero e chiedo a Dio è di non fare troppi danni nel mentre che faticosamente imparo
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Non c’è dubbio Don Fabio…
Credo che ciò che non è mai cambiato in Maria nella Sua “progressione”, è l’atteggiamento del cuore 😉
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….ad esempio: trattenere in vita mio papà è accanimento terapeutico o eutanasia?
Bella domanda! Si desume che per il soggetto la vita sia volta nelle fasi terminali e non sia in stato di coscienza. Di fatto i medici, “accompagnano” in maniera soft il sofferente verso lo “spegnimento” naturale, aumentando i farmaci specifici sedativi del dolore: in sostanza una eutanasia camuffata, accettata solitamente di buon grado dai familiari che si rimettono, giustamente, nelle competenti mani del personale curante.
Per il resto, se il soggetto e’ cosciente e libero di discriminare le cure proposte dai medici curanti, forse vale l’esempio dato da una ragazza speciale, assai sofferente sin dalla nascita che considerava la vita segnata dalla sofferenza un “doppio dono di Dio”. Ella accetto’ tutte le cure proposte dai medici, anche le piu’ dolorose, perche’ essendo la vita un dono esclusivo di Dio, ella doveva fare la sua parte fino in fondo per non lasciarsi morire, fino all’ultimo giorno. E cosi’ fece…
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