Nell’organizzazione del nostro orario una volta ogni tanto mi toccano tre giorni consecutivi di guardia. Niente di drammatico, per carità, il San Filippo è un ospedale relativamente piccolo e quindi si lavora in modo tranquillo, senza i ritmi frenetici di un policlinico.
Però significa che per 72 ore devo essere pronto a rispondere ad eventuali emergenze, e quindi non posso uscire dall’ospedale, come se fossi in clausura, il che per uno spirito libero e tendenzialmente anarchico come il sottoscritto è piuttosto pesante. Tuttavia devo riconoscere che la cosa ha una sua bellezza e un “sapore” spirituale che, per quanto amaro in bocca, diventa dolcissimo una volta ingerito.
Ci vogliono una forte determinazione e molta maturità spirituale per non soffocare, ci vuole disciplina interiore e la capacità di dare ordine alla vita da soli, senza una struttura che ti aiuti a farlo, per non avere la sensazione di buttare via il tempo, ci vuole in sostanza un forte spirito di preghiera, perché sono in pratica 72 ore di solitudine. Eppure in questo tempo che sembra a volte (soprattutto in estate quando perfino l’ospedale rallenta) dilatarsi all’infinito si impara tantissimo, e se la sai vedere c’è nascosta una grande bellezza.
Mi piace alzarmi presto al mattino e aprire la chiesa, chiacchierare con i barboni che hanno passato la notte nell’atrio dell’ospedale (e all’occorrenza difenderli dalle prepotenze di qualche custode troppo zelante), salutare i colleghi infermieri che arrivano alla spicciolata… ecco, mi è scappata questa parola, “colleghi”, riferita agli infermieri, che, per quanto inesatta, esprime precisamente come mi sento, perché il bello del viverci in ospedale è che si fa davvero l’esperienza di essere “au couer du masses”, come intitolava un suo splendido libro (che è stata una delle guide della mia formazione) Renee Voillaume. Mi sento davvero uno di loro, uno tra tanti, ed è una esperienza che consiglierei di cuore a tutti i sacerdoti, come antidoto al velenosissimo spirito di casta, come superamento di ogni tentazione di potere.
Anzi vado perfino oltre. Io metterei un’esperienza di almeno un anno di cappellania (ospedale, carcere o università, secondo le preferenze di ciascuno, non fa differenza nella sostanza) nel percorso di ogni sacerdote, come un passaggio propedeutico al diventare parroco, perché solo conoscendolo da dentro, vivendoci insieme, si capisce il mondo laicale e si impara a rapportarsi con i laici da una posizione non di potere.
Il Papa ha lanciato una guerra contro il potere clericale, rivolgendo un appello addirittura a tutti i fedeli (cosa non inaudita, ma rara), perché sente che il momento è favorevole per una purificazione nella Chiesa che sarà anche dolorosa, ma non è più rimandabile. Ecco, metto sul piatto i miei due centesimi e avanzo timidamente questa proposta: è davvero impensabile inserire un anno o due di cappellania tra le necessarie esperienze che un sacerdote deve fare prima di poter svolgere il delicato ministero di parroco o comunque avere una qualsiasi autorità nella Chiesa?
Condivido ciò che lei dice.
Molto ben narrato anche.
Pur essendo io collocato in una posizione più tradizionale rispetto alla sua, leggo volentieri i suoi articoli. Sanamente tradizionale però credo di essere, perché prendo ispirazione da magisteri più conservatori, come ad esempio quello di Pio decimo secondo, come da quelli più progressisti come Francesco o Paolo sesto.
Leggo Amerio, ma anche un po Don Milani o Don Mazzolari. Quanto meno x capirli.
Però, appunto, sono per il cattolicesimo verace, non annacquato e soprattutto che non scinde la pastorale dalla dottrina.
Senza dottrina è solo un vago catto umanismo, ma nulla di più.
Ecco..nonostante la mia ( credo ) flessibilità mentale, sentire un prete definirsi anarchico mi inquieta non poco.
Basta solo volgere lo sguardo nel ricordo dei tanti preti uccisi in Spagna da anarchici e socialisti durante la guerra civile.
Trucidati barbaramente.
Lo faccia caro e simpatico Padre.
E vedrà che la prossima volta prima di definirsi anarchico conterà 70 volte 7.
La Pace di Cristo e Maria siano con lei e tutti i lettori di questo blog.
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Credo che sia abbastanza evidente che in questo caso il termine “anarchico” non è usato come sostantivo, ma come aggettivo. Non cioè per esprimere una posizione politica, quanto un tratto caratteriale (uso abbondantemente testimoniato nell’italiano sia corrente che letterario), quello tipico di una persona con un temperamento poco incline all’obbedienza, con un modo di fare caotico e spesso incline più all’improvvisazione che al metodo.
Leggendo tra le righe poi (secondo me in modo anche abbastanza palese) credo che si possa evincere abbastanza facilmente che considero questo tratto non una virtù, ma un limite del mio carattere naturale.
Condivido in tutto il suo giudizio sull’anarchia in quanto movimento politico, che però in questo caso è semplicemente del tutto fuori luogo.
Cordiali saluti
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Sento in giro un vento politico ostile alla cappellania negli ospedali pubblici, dove è impiegato danaro pubblico per sostenerne la presenza.
È un buon segno.
E sostiene molto di ciò che hai riflettuto nelle 72 ore di solitudine, mediazione e meditazione.
I sei anni di preparazione che sopportano e supportano gli eletti chiamati al sacerdozio potrebbero ospitare anche esperienze di “scuola-lavoro”, come affuancamento volontario per tre mesi a quelli come te che, in solitudine, vivono le lunghe 72 ore negli ospedali o nelle carceri. Saresti meno solo e entreresti nel flusso formativo dei nuovi e rari nuovi sacerdoti.
Ma forse sarebbe un errore, come quello compiuto nel ciclo scolastico dell’obbligo dove sono inzeppate troppe pretese formative e finanche educative, con risultati disastrosi.
Poi rifletto sulla tua insistenza sul richiamare la solitudine nella condizione reale del prete.
È, secondo me, una condizione che appartiene a gran parte dell’umanità urbanizzata e non da oggi.
Per un prete è un segno di forza interiore ed esteriore distintiva, inevitabile, ineluttabile.
Desiderabile.
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