È uscito sull’ultimo numero della rivista Rogate Ergo (Gennaio 2018) un mio articolo in cui presento la figura del direttore spirituale come “maestro delle scelte” e spiego perché nessuno che voglia seriamente progredire nella fede possa farne a meno. In parte riprende concetti già espressi in altri contesti, ma si sa, in questo campo repetita iuvant. Lo condivido anche con i fedeli lettori del mio blog.
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Vivere è scegliere. La libertà di scelta definisce il nostro essere uomini e ci è cara a tal punto che, come dice Dostoevskij, amiamo la libertà più della verità e preferiamo fare il male piuttosto che trovarci nella condizione di non poter scegliere. Paradossalmente ci troviamo oggi in un tempo in cui abbiamo una libertà di scelta quasi infinita, eppure scegliere è diventato sempre più difficile. In uno dei suoi saggi più brillanti il noto sociologo Zygmunt Bauman analizza questa situazione: in questo mondo trasformato in un immenso supermercato e reso ancor più grande dalla Rete scegliere è diventato pressoché impossibile. Siamo alle strette, prendere decisioni non è mai stato così necessario e non è mai stato così difficile. È un fenomeno che gli esperti di marketing conoscono molto bene: la saturazione del mercato. Trovandosi di fronte ad una offerta praticamente infinita di opzioni più o meno indistinguibili tra loro e ad una pressione sempre maggiore che lo spinge in una direzione o nell’altra, il cliente di fatto non sceglie, non esegue più cioè un giudizio di valore sul prodotto, ma semplicemente si abbandona alla corrente o all’istinto del momento (Z. Bauman, Consumo dunque sono, Bari Laterza 2010).
Se applichiamo lo schema del sociologo polacco alla dimensione etico/religiosa e alle scelte esistenziali (Quale religione abbracciare? Sposarsi o convivere? Generare dei figli o no? Come impegnare il proprio tempo libero? Cosa leggere? Chi frequentare? Insomma le mille decisioni quotidiane che dobbiamo prendere e che definiscono chi siamo, formando il nostro “volto spirituale”) scopriamo che a guidarci nelle nostre scelte è per lo più l’istinto se non il capriccio. Il risultato è un uomo frantumato, sfocato e indefinito (come nel geniale film di Woody Allen “Harry a pezzi”), un uomo la cui vita finisce con il non avere una trama, come un libro le cui pagine siano state strappate e rimescolate a caso.
Per di più la trasformazione del mondo in un grande mercato ci illude che, essendo le opzioni tutte possibili, esse rimangano disponibili sempre, che sia sempre possibile cioè resettare il sistema, tornare indietro e ricominciare da capo, come se ogni scelta che prendiamo non portasse con se delle conseguenze che devono essere godute o sopportate e dunque, in una parola, delle responsabilità. Il grande marketing esistenziale fa di tutto per alimentare questa illusione offrendo tutta una gamma di (costosissimi) correttivi che consentano di scaricare la propria responsabilità, dalla maternità surrogata al divorzio facilitato, dall’aborto ai mille artifici finanziari che generano una finta ricchezza basata non sul lavoro ma sui flussi del denaro (falsa ricchezza che prima o poi presenta, e sta presentando, il conto). Tutto insomma pur di non interrogarsi su di sé e mettere seriamente in discussione il proprio stile di vita.
Il punto è che per fare una scelta abbiamo bisogno di un perché, di un quadro generale di riferimento, di una visione dell’uomo, e quindi di noi stessi, che ci orienti e ci dica cosa è bene e cosa è male. Tanti si presentano come formatori, cioè con la pretesa di dare forma alla vita delle persone, ma per dare una forma abbiamo bisogno di quella che i filosofi medioevali chiamavano la forma formans, ovvero di un modello di riferimento a cui ispirarci. Quale uomo vuoi costruire? Modellato su cosa? Chi ti dà l’autorità di presentare il tuo modello come credibile? E anche se soltanto volessi costruire te stesso rimane il problema: qual’è il tuo modello di riferimento? Chi vuoi essere?
Qui si apre il grande tema del discernimento: assumiamo infatti che si sia compreso che il nostro modello è Cristo, qui entra in gioco il padre spirituale. Parliamo cioè di paternità spirituale solo dopo la conversione, dopo cioè che si sia deciso di vivere la vita come discepoli di Cristo, cioè imitandolo, assomigliandogli il più possibile. Una volta fatta questa opzione di fondo, infatti, come orientarsi nel dedalo delle scelte quotidiane? Come distinguere tra le mille opzioni possibili quelle che più ci avvicinano a lui?
La catechesi che abbiamo ricevuto e che ci ha portato alla conversione può aiutarci fino a un certo punto e così il magistero della Chiesa, infatti nessuna catechesi e nessun magistero può giungere al grado di finezza necessario per dare forma alla vita. Un insegnamento esterno potrà dirci al massimo cosa NON dobbiamo fare, ma come scegliere quando l’alternativa è tra due beni entrambi possibili? Abbiamo bisogno di ascoltare quello che Agostino chiamava “il maestro interiore”, cioè la nostra coscienza, che ci aiuti a superare il labirinto della complessità. Ma questa voce interiore va affinata, va formata e qui si comincia a comprendere meglio il ruolo del padre spirituale, come maestro delle scelte: un pedagogo della coscienza o, se si preferisce, un amplificatore che ci permetta di ascoltarne meglio la voce, insegnandoci a distinguerla tra le molte voci che parlano dentro di noi, rendendoci di nuovo capaci di scegliere.
A questo punto siamo in grado di comprendere esattamente qual è il ruolo del padre spirituale e perché in questo nostro tempo sia particolarmente necessario. Costantemente i grandi maestri dello spirito hanno sottolineato che non si può seriamente progredire nella vita interiore senza un padre o un maestro da seguire, ma mi sembra che il nostro tempo così ansiogeno e confuso ne abbia bisogno in modo particolare e forse più forte che in passato, tanto è vero che ci sono molti che si affidano senza criterio a qualche “guru” a cui affidare il peso della propria libertà perché li liberi dalla fatica di dover scegliere e prendere decisioni.
Ma un buon padre spirituale (ce ne sono anche di cattivi o incompetenti) è tutto meno che un guru, il suo intento non è quello di porsi davanti alla persona come un maestro, ma di suscitare e guidare l’ascolto del maestro interiore, non sarà mai lui a decidere al posto del suo “figlio”, ma piuttosto lo aiuterà a comprendere la verità che abita dentro di lui, a discernere tra i suoi desideri quali sono quelli suggeriti dallo Spirito Santo. Piuttosto che sollevarlo dalla responsabilità, lo aiuterà ad assumerla gioiosamente. Per questo molto più che nel dare risposte il lavoro del padre spirituale consiste nel fare domande, perché spesso nella scoperta di sé e della propria vocazione le domande contano anche più delle risposte. Per questo deve essere una persona dotata di un grande equilibrio interiore, che non cerca di risanare una qualche sua propria nevrosi personale, ma si mette invece interamente a servizio dell’altro, l’ideale sarebbe che nella sua funzione di mediatore tra la persona e la voce di Dio che abita in lui egli diventasse del tutto trasparente, tanto da accorgersi a malapena della sua presenza e del suo lavoro.
A volte capita anche che la funzione del padre spirituale sia confusa con quella dello psicologo o addirittura sostituita con essa, come se le due figure fossero sovrapponibili, come se lo psicologo fosse una sorta di padre spirituale laico. In realtà invece si tratta di due funzioni diversissime, come diversa è la figura del confessore. Lo psicologo e il confessore si occupano delle patologie della persona (l’uno delle patologie psichiche, l’altro di quelle spirituali), il padre spirituale invece si occupa della sua costruzione e del suo perfezionamento e se è evidente che non si può procedere in modo sensato a costruire una persona senza mettere mano anche alle sue patologie è altrettanto vero che non si può assolutamente esaurire il compito nella mera guarigione psichica. Lo psicologo ha come orizzonte la sanità della persona, il padre spirituale la sua santità.
Certamente può essere utile al compito del padre spirituale una conoscenza basica della psicologia, se non altro quel tanto che basta a riconoscere che certi tratti negativi hanno a volte un carattere nevrotico o compulsivo/ossessivo e quindi non possono essere eliminati semplicemente con uno sforzo di volontà, ed anzi insistendo su questo si possono creare danni peggiori, oppure a comprendere che in certi casi prima di procedere alla direzione spirituale (o accanto ad essa) è opportuno l’intervento di uno psicologo per dare alla persona quel minimo di equilibrio che costituisca una base umana su cui poter lavorare.
Tuttavia la psicologia deve sempre conservare il suo ruolo ed il suo ambito di scienza ausiliaria: può essere utile ma non può mai sostituirsi alla direzione spirituale perché è diversa nello scopo, nel metodo e negli obbiettivi. Per quanto riguarda lo scopo lo abbiamo detto: lo psicologo lavora per la sanità del paziente e non per la sua santità (e quindi ad esempio è del tutto disinteressato circa le
conseguenze morali delle scelte, ambito invece a cui non può non interessarsi il padre spirituale), per quanto riguarda il metodo invece lo psicologo generalmente lavora sul passato del paziente, in quanto esso impatta con il presente e lo condiziona, lo aiuta quindi a risignificare la sua storia per dare ad essa un senso e ritrovare così una immagine di sé che egli possa accettare, il padre spirituale invece lavora prevalentemente sul futuro, non si preoccuperà tanto del passato della persona che a lui si affida, ma piuttosto di mostrare che il perdono di Dio rende accettabile qualsiasi passato ed è capace di guarire qualsiasi ferita in ordine alla risposta alla propria chiamata, il suo compito è spesso quello di infondere speranza, infine riguardo all’obbiettivo generalmente lo psicologo cerca di rimettere il paziente in contatto con il proprio sé interiore, mentre il padre spirituale vuole piuttosto aiutarlo ad ascoltare la voce di Dio dentro di sé. Le due cose a volte possono coincidere, ma spesso sono invece molto lontane; per fare un esempio, uno psicologo per mettere una persona in contatto con il proprio sé potrebbe spingerla a reagire ad un torto subito, mentre il padre spirituale potrebbe consigliare di accettarlo in nome dell’obbedienza o dell’amore per il nemico. Insomma lo psicologo ti spinge ad accettarti, il padre spirituale a superarti, e se è vero che nessuno può superarsi se prima non si accetta, è altrettanto vero che il movimento dell’ascesi non può assolutamente esaurirsi nella accettazione di sé.
È chiaro che siamo in un campo estremamente delicato in cui non si danno regole definitive (o se ne danno pochissime), ma tutto è sottoposto ad un prudente discernimento; per cui si può avere la sensazione di un panorama continuamente mutevole in cui quello che è vero per uno non è vero per un altro. In realtà non è esattamente così, quello che è vero resta vero sempre, ma spesso, trovandosi di fronte ad una incapacità o ad una ignoranza invincibile, il Padre Spirituale sceglierà il criterio del Maggior Bene Possibile (e non del male minore, la logica è completamente diversa), cercando di orientare ad esso la persona.
Quello che però deve restare come un assoluto mai soggetto a cambiamento, anche se la scelta del Maggior Bene Possibile può portare ad accettare transitoriamente situazioni imperfette, e che d’altronde è ciò che più di tutto caratterizza il lavoro del padre spirituale rispetto a quello dello psicologo, è l’obbiettivo finale: la meta del cammino, ciò che prima abbiamo chiamato la forma formans, ovvero Cristo come modello esistenziale, come parametro di umanità su cui misurarsi, come orizzonte e meta verso cui costruire e indirizzare il proprio lavoro.
Questo equivale a dire che lo scopo del padre spirituale è quello di costruire (o meglio ancora di generare) Cristo nell’altro. Per questo il padre spirituale è una figura paradossale: egli non ha la pretesa di portare l’altro alla realizzazione di sé, il suo scopo è realizzare Cristo, nella segreta convinzione però che chi realizza Cristo realizza se stesso, chi segue il modello unico persegue la sua propria gioia. C’è dunque un assunto di fede alla base di questo ministero, che se può apparire scontato non lo è affatto: fede non solo nel Vangelo, ma innanzitutto nel Cristo come compimento dell’umano, come risposta definitiva ad ogni domanda, come termine ultimo di ogni scelta possibile.