Del bello e del buono (e della morte dei cantanti) – Reprint

La recente discussione, molto più accesa di come me l’aspettavo, a partire dal post su Jim Morrison mi ha ricordato un articolo che scrissi tempo fa, siccome mi annoio a ripetere le stesse cose ve lo ripropongo pari pari:

Nel Greco classico e parimenti in Ebraico antico gli aggettivi bello e buono erano praticamente sinonimi. Se un gesto era eticamente buono era anche esteticamente bello e, viceversa, se un artista produceva un opera di valore questa era percepita come buona, poiché elevava l’animo alla bontà.

Non so esattamente quando questa percezione del mondo sia andata in pezzi, ma l’immagine simbolo di questa frattura tra etica ed estetica è chiarissima ai miei occhi e la identifico con il famosissimo quadro di munch “l’urlo”. Quel volto umano che si liquefa nella disperazione mi ha sempre impressionato moltissimo.

Da allora in poi l’arte, ogni arte, non ha fatto altro che riproporci lo stesso urlo. È come se la nostra estetica, sganciata dall’etica, non fosse stata più capace di avanzare di un passo, congelata in quella disperazione esistenziale. I quadri di Andy Warhol (penso alla famosissima Marylin), la musica rock in tutte le sue derivazioni, dai Doors ai Talking Heads, ma anche il cinema, l’architettura, i fumetti, la letteratura e ogni altra arte non hanno fatto altro che celebrare l’estetica del disagio, come se il solo modo di superare la disperazione fosse quello di sublimarla.

Non voglio fare il moralista, ogni epoca ha l’arte che si merita, ma semmai notare che se la nostra società è incapace di creare una nuova estetica è probabilmente perché ha completamente perso l’ethos.

Nel libro dell’Apocalisse è contenuta una profezia folgorante: “in quei giorni gli uomini… brameranno di morire, ma la morte fuggirà da essi” (Ap. 9,6). Quando la sola estetica che rimane è quella dell’urlo, la morte viene cercata e desiderata come una sposa, come la sola via di fuga che resta ad una follia collettiva a cui non ci si riesce a ribellare, tanto è pervasiva e totalizzante.

In sé il suicidio è una resa, non una ribellione, il fatto che i comportamenti autodistruttivi dei divi del rock (ultima la povera Winehouse) vengano presentati come ribellione è il sintomo più chiaro di una colossale resa collettiva. Gli artisti sono più sensibili e quindi più vicini alla disperazione, sono una categoria a rischio, per così dire, ma la responsabilità di queste morti è in una società incapace di etica.

Ecco qual’è il problema. Quale ethos resta a quest’occidente sazio e disperato? Cosa resta da celebrare oltre alla dissoluzione sociale? Cosa canteremo dopo aver cantato il nulla? Non per niente in tempi recenti la sola arte che mi sembri capace di dire qualcosa di nuovo è quella rivoluzionaria, dalla Cina all’Iran, dove il bisogno di libertà dà all’artista la capacità di distogliere lo sguardo dal suo proprio ombelico ed elevarlo a qualcosa di più grande, in fondo a un guizzo, un’eco, un’ombra, sia pur lontana, di trascendenza.

Ma l’ethos non è lontano, “non è al di là del mare da dover dire chi lo prenderà per noi?”, l’ethos è accanto a te, è il volto dell’altro, è la solidarietà umana coniugata in ogni forma, è l’incanto del viso che ti viene incontro come un oasi in un deserto. Ripartiamo da qui, da un’arte capace di solidarietà e quindi anche se necessario di rivoluzione, ma come atto d’amore, un’arte innamorata nuovamente del volto umano. Centrata non più sul bisogno soggettivo, ma sull’esuberanza del dare.

10 commenti

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10 risposte a “Del bello e del buono (e della morte dei cantanti) – Reprint

  1. 61Angeloextralarge

    “Ma l’ethos non è lontano, “non è al di là del mare da dover dire chi lo prenderà per noi?”, l’ethos è accanto a te, è il volto dell’altro, è la solidarietà umana coniugata in ogni forma, è l’incanto del viso che ti viene incontro come un oasi in un deserto”: l’importante è ACCORGERSENE… 😉

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  2. Io sono proprio fuori, non dovrei neanche rispondere per mancanza di conoscenza. Certo che conosco i Doors, Stones, Beatles, Deep Purple, etc. etc. Ma non li ho mai apprezzati, per me era una sofferenza vivere in collegio dove la maggior parte dei ragazzi ascoltava quella musica, e la dovevo sopportare per forza.
    Sono cresciuta con la musica classica e con John Denver, entrambi amo ancora oggi. L’arte mi si imprime quando mi parla, mi si svela, senza perdere un’ultimo mistero che mi rimane nascosto.
    Per me è importante l’armonia delle note che si incontra con la mia anima, la mia psiche. Spesso l’ho sentito come limite perché in qualche modo ero esclusa da una parte del divertimento dei miei amici. Ora non più, ho accettato il fatto che sono abbastanza silenziosa, molto riflessiva e anche “classica”, un po’ strana. 😛
    Ma John Denver canto ancora a squarciagola.

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    • Ma anche la musica classica esprime l’estetica del disagio!
      A meno che non ti fermi a Beethoven ovviamente, ma se già arrivi a Ravel o Debussy o Stravinskij…

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      • In realtà non c’è espressione artistica del Novecento che sia sfuggita a questa trappola e per NOvecento intendo proprio Novecento, cioè fin dai primi del secolo. Pensa alla Cosienza di Zeno per esempio, o in poesia all’Ermetismo, o in architettura al formalismo, le altre arti le conosco meno bene, ma so che dappertutto è stato così, la dissoluzione del volto umano, cioè della solidarietà, nell’arte ha avuto conseguenze tragiche

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      • Si, è vero, ma non mi disturba e credo che il motivo siano gli strumenti musicali diversi, meno aggressivi. Mi fa riflettere, interrogare sul perché per meglio eseguire un pezzo musicale, ma non mi disturba. Ravel è intenso, ma gli accordi lasciano uno spazio libero, ecco: sono arte. La musica moderna raramente ho concepita come arte.

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        • 61Angeloextralarge

          “Nessuno meglio di voi artisti, geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all’alba della creazione, guardò all’opera delle sue mani. Una vibrazione di quel sentimento si è infinite volte riflessa negli sguardi con cui voi, come gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, avete ammirato l’opera del vostro estro, avvertendovi quasi l’eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarvi” (1)

          “Il rapporto tra buono e bello suscita riflessioni stimolanti. La bellezza è in un certo senso l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza. Lo avevano ben capito i Greci che, fondendo insieme i due concetti, coniarono una locuzione che li abbraccia entrambi: «kalokagathía» , ossia «bellezza-bontà». Platone scrive al riguardo: «La potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello” (2)

          “E vero però che nell’età moderna, accanto a questo umanesimo cristiano che ha continuato a produrre significative espressioni di cultura e di arte, si è progressivamente affermata anche una forma di umanesimo caratterizzato dall’assenza di Dio e spesso dall’opposizione a lui. Questo clima ha portato talvolta a un certo distacco tra il mondo dell’arte e quello della fede, almeno nel senso di un diminuito interesse di molti artisti per i temi religiosi. Voi sapete tuttavia che la Chiesa ha continuato a nutrire un grande apprezzamento per il valore dell’arte
          come tale. Questa, infatti, anche al di là delle sue espressioni più
          ipicamente religiose, quando è autentica, ha un’intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior
          distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa. In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione.” (10)

          “Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte. Essa deve, infatti, rendere percepibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio. Deve dunque trasferire in formule significative ciò che è in se stesso ineffabile. Ora, l’arte ha una capacità tutta sua di cogliere l’uno o l’altro aspetto del messaggio traducendolo in colori, forme, suoni che
          assecondano l’intuizione di chi guarda o ascolta. E questo senza privare il messaggio stesso del suo valore trascendente e del suo alone di mistero” (12).

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